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Io pessimista? Sono solo un ottimista ben informato

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Mario Tozzi
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2011. L’indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero non poteva ignorare che stava condannando la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché?

Come vanno le cose dell’ambiente, sul pianeta Terra, all’alba del terzo millennio? Sarebbe facile dire con molte ombre e poche luci, ma saremmo lontani dalla verità, che appare incontestabilmente più dura: le cose non vanno affatto meglio sull’unico pianeta che abbiamo, nonostante gli sforzi di uomini e donne di buona volontà. Una volontà che però basta sempre meno.
 
E' stato l’anno della marea nera, sarebbe bene non dimenticarlo. E abbiamo suscitato una certa pena, noi uomini, intenti come siamo stati ad armeggiare attorno a un buco da cui sgorgava una marea di petrolio, senza riuscire ad attapparlo, pur spendendo quanto un anno di reddito di un’intera nazione africana. Ma quella pena si trasformerebbe in tenerezza, se ci riuscissimo a vedere, costretti nelle nostre amate scatolette metalliche per ore, ogni giorno, illudendoci di comunicare quando siamo più isolati che mai. Che diventa tristezza, se ripensiamo all’estate, distesi su spiagge sporche sulla riva di mari in cui riversiamo senza sosta tonnellate di liquami. E infine rabbia, mentre buttiamo via l’acqua di sorgente che poi ricompriamo imbottigliata a prezzi assurdi. O quando fabbrichiamo sostanze come la plastica che contrastano il principio per cui in natura nulla si crea e nulla di distrugge. (Di tutto questo diamo quotidianamente conto nei nostri commenti.)
 
Davvero questo è il migliore dei mondi possibile? In un famoso viaggio nell’Europa dell’inizio del XX secolo, Tuiavii di Tiavea, re di Samoa, metteva già alla berlina molti aspetti del progresso occidentale riducendoli a usanze strane e ridicole, come quella di suddividere il tempo, o malefiche, come quella di venerare il denaro come unico dio. Il capo indigeno concludeva la sua invettiva contro il papalagi (l’uomo occidentale) imponendo ai suoi sudditi di non recarsi mai in Europa, ché tanto non c’era nulla da imparare.
 
Come ho personalmente già ricordato più volte, Tuiavii aveva capito che c’è una differenza fra gli uomini occidentali e gli altri viventi. Una sola, ma fondamentale, che spiega la nostra apparente supremazia e, insieme, il nostro precipitarsi verso la crisi ecologica più grave che l’umanità abbia mai attraversato. Questa differenza non sta nella nostra scatola cranica più capace (se è per questo i neandertaliani avevano un cervello anche più grosso, ma si sono ugualmente estinti), in una presunta superiore intelligenza e nell’uso delle mani (basti studiare gli elefanti e la loro proboscide) o nella capacità di comunicare (solo Bach regge il confronto di armoniche con le balene). Questa differenza è quella che non permette di notare più quei paradossi della vita quotidiana che pure i cosiddetti selvaggi mostravano di conoscere.
 
Ma non è difficile coglierla (come ho sottolineato in diversi editoriali), è la stessa che non aveva invece compreso l’ultimo indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero: non poteva ignorare che così facendo avrebbe condannato la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché? A causa dell’accumulo e del profitto, sconosciuti al resto degli animali e dei vegetali, ma ben noti proprio agli uomini, che più posseggono e più vorrebbero. Questa è di fatto l’unica differenza che conta.
 
Ma come sei pessimista, direte. No, sono solo un ottimista bene informato. E qualcosa si può fare. Molto in breve, una riconversione ecologica delle attività produttive dell’intera umanità, non tanto di più. Ridurrebbe gli impatti umani, farebbe risparmiare acqua, permetterebbe il riciclaggio dei rifiuti, consentirebbe le energie rinnovabili, conserverebbe il territorio. Insomma ci consentirebbe di sopravvivere senza tagliare il ramo su cui siamo seduti. Una piccola luce in fondo al tunnel.