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Sabato 04 agosto 2007
Antidoping e regole: Tutti le vogliono pochi le rispettano
dalla Rivista Telematica diretta da Eugenio Capodacqua

 

Rivista telematica diretta da Eugenio Capodacqua e Redattore di Repubblica
antidoping e regole: tutti le vogliono e le accettano, pochi le rispettano
AGOSTO 2007 - Partiamo dalla notizia del giorno: l’Astana ha licenziato Alexander Vinokourov, risultato positivo all'emotrasfusione anche alla controanalisi. Dunque è certo l’inganno e la frode sportiva; i test dicono che si è iniettato sangue di un donatore compatibile con il suo. E subito le domande si affollano. Una su tutto: ma come è possibile che in quelle circostanze, in un Tour nato e fra mille sospetti e accompagnato ad una esasperata (rispetto al passato) attenzione nei confronti del doping il leader di una squadra sia così ingenuo di reinfondersi una sacca di sangue non suo? Come è possibile in un mondo in cui le tecniche doping più sofisticate sono ormai un “know-how” acquisito dai più che si scivoli su una banale buccia di banana? Difficile dare una spiegazione se non per ipotesi. E l’ipotesi più plausibile è quella dell’errore. Un errore nel reinfondere la sacca giusta; scambiandola, magari con quella di un altro. Bene, dunque è andata al popolare “Vino”, perché se l’errore fosse stato fatto con sangue non compatibile, probabilmente non sarebbe stato in grado di raccontarla. Tanto per sottolineare come si parli con grande facilità di trasfusioni, di sangue che va e viene, di emazie e compagnia, ma i rischi sono sempre altissimi e non solo sul piano del regolamento sportivo. Perché rischiare in questo modo quasi suicida? Uno dei motivi è che fino a pochissimo tempo fa il segnale che arrivava dall’alto, cioè da chi gestisce l’intero movimento ciclistico, in questo momento in grave affanno per i problemi di doping, era debolissimo. Se non proprio di tolleranza. Ora la tendenza sembra essersi invertita e - ove si dovesse conservare in futuro - costituirebbe un serio e fondamentale “paletto” nell’ostacolare la diffusione della farmacia proibita. Nessun atleta con un minimo di cervello si infila in un percorso dannoso e rischioso, se sa che le possibilità di farla franca sono minime e se sa che tutto l’ambiente gli è contro. Poi, inutile negarlo, il kamikaze lo troveremo sempre. Leggi e regolamenti severi contro il furto non impediscono che ci siano i ladri, ma possono render loro la vita dura e diminuire la percentuale degli aspiranti “delinquenti” (non dimentichiamo che dalle nostre parti il doping è anche un reato penale). Su questo spazio e in questo sito da anni ormai battiamo sulla necessità che a gestire il problema doping nel mondo non siano le autorità sportive, coinvolte e spesso travolte dalle esigenze dello sport-business-spettacolo. I controlli antidoping (a sorpresa, soprattutto) debbono restare, ma vanno prima di tutto resi più efficaci (sfuggono ancora troppe sostanze e pratiche...) e, soprattutto “governati” da una struttura mondiale (con diramazioni nazionali) indipendente dal mondo dello sport. Si potrebbe fare riferimento all’Oms e in questo senso dovrebbero essere i governi dei vari paesi a prendere un po’ più sul serio il problema e farsi carico di iniziative adeguate. Una scelta obbligata, perché non c’è più tanto tempo da sprecare.
Il pastrocchio del Tour è lì a dimostrare quali siano i danni cui si può andare incontro. Un altro Tour così nel caos-doping e il ciclismo è bello che spacciato, perché l’unica cosa che può “vendere” è quella credibilità che risulta ormai drammaticamente compromessa. Gli organizzatori dei grandi Tour, certamente non scevri da responsabilità passate (e da ipocrisie oggi evidentissime) lo hanno capito. Lo capiranno anche i dirigenti internazionali? E quelli nazionali? Lo avranno capito corridori, tecnici, massaggiatori, medici del ciclismo che in questi anni hanno chiuso tutti e due gli occhi, spesso e volentieri? Siamo davvero all’ultima spiaggia e se c’è la volontà si può ancora tentare di ricostruire. Occorre pensare in grande se si vuole incidere in qualche modo sul fenomeno doping. Il ciclismo non è il solo sport malato. E’ solo la dimostrazione più evidente, la parte emergente dell’iceberg. Ma al doping non sfugge nessuna disciplina: dall’atletica al nuoto, al calcio, al tennis. Nessuno può sfuggire al sospetto quando perfino i campi di golf evocano la triste immagine del testosterone, un doping pesantissimo denunciato da atleti di primissimo piano di questa disciplina sportiva.
Sarà fondamentale mettere in campo una volontà determinata. Rapidamente. Su scala mondiale e in tutte le discipline. Cosa che non traspare se solo si guarda a come rispondono all’appello della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, le varie organizzazioni sportive mondiali e le varie federazioni internazionali. Secondo quanto emerge da una recente indagine il codice mondiale antidoping, varato nel 2003, accettato da tutti i paesi è rispettato da sole 22 federazioni olimpiche su 35 (28 di sport d’estate e 7 d’inverno) Sei altre sono “in progress”, cioè in via di renderlo attivo al loro interno, un processo talvolta esasperatamente lento. Dieci le federazioni riconosciute che sono in regola e dieci “in progress”. Ma nove addirittura in palese stato di infrazione delle regole. Peggio: i Comitati olimpici sono colpevolmente in fallo. Su 203 CNO solo 21 sono allineati e due “in progress”. Sulle 18 leghe internazionali di varie discipline che hanno accettato il codice solo nove lo hanno sottoscritto, ma nessuna lo rispetta. Si litiga sul punto cruciale, i controlli a sorpresa fuori dalle competizioni, l’unico meccanismo in grado di avere una certa efficacia nella lotta; e sui criteri per localizzare gli atleti. La lista ufficiale, dicono alla Wada sarà resa nota a settembre, ma il bilancio è davvero inquietante a fronte di un documento che in tema di equiparazione di regole e di pene rappresenta il miglior tentativo mai fatto dallo sport mondiale.
PETACCHI, GLI ASMATICI, LA BUONAFEDE E LE VECCHIE ABITUDINI
LUGLIO 2007 - Dice: gli va data la buonafede. Qualche spruzzatina in più, proprio quel giorno e cosa sarà mai? Non penserete mica che uno si voglia dopare col salbutamolo? Via! E' stata una banalità quella per la quale adesso Alessandro Petacchi si trova in difficoltà, più che sul terrificante Zoncolan, lui che è sprinter di razza. Salbutamolo a 1350 ng/ml e la mannaia della squalifica (due anni) sul capo ove non riesca a convincere la Procura antidoping della sua buonafede. Facile dire buonafede. Una parola... Ci saranno - questo è certo - perizie e controperizie a supportare questa tesi. Ce ne sarebbe una che dimostra come si possa "smarginare" i 1.000 ng/ml anche con le semplici dosi terapeutiche. Però è stato lo stesso entourage dello sprinter spezzino ad ammettere che "quel giorno forse qualche spruzzatina in più c'è stata". E poi faceva caldo; e poi l'urina era poca e concentrata, ecc. ecc. Dunque - per ammissione - saremmo comunque fuori dalla dose terapeutica. Cioè nella zona regolata dalla legge italiana che vieta comunque l'uso di farmaci "off label". Quanto alla buonafede ce ne vuole di buona volontà. Non tanto per il caso specifico che paradossalmente ci potrebbe anche stare. Anche se i casi di "smarginamento" da dose terapeutica sono pochissimi e difficilmente fanno statistica. Mentre la statistica dice che negli altri controlli fatti al velocista durante il Giro (5 in tutto) i valori di salbutamolo erano tutti attorno o inferiori a 500 ng/ml. Valori già elevati di per se che testimoniano la continuità della strategia di cura. Ma di quanto deve aver esagerato quel giorno Petacchi per ritrovarsi con valori di salbutamolo 3 volte quelli medi registrati negli altri test antidoping? E il caldo c'è stato solo quel giorno?
Tornando alla buonafede, non è facile, quando si conoscono le frequentazioni del cosiddetto "sprinter gentiluomo", in particolare quella di un medico (da lui più volte ringraziato) che ha la triste fama di essere un medico dopatore. Ora, parlando di un professionista, risulta difficile pensare a tanta leggerezza. Nell'usare un prodotto a restrizione d'uso in tale quantità (sbadatamente o volutamente? Non lo sapremo mai) da rischiare di far saltare in un modo o nell'altro la restrizione; nell'inneggiare ad un medico che non gode di buona fama. Possibile mai che nell'universo dei tecnici cui si può rivolgere un facoltoso professionista esista solo "quel medico"? E da un medico dopatore si va per farsi fare le tabelle di allenamento? Sono dubbi che sarebbe bene chiarire, magari davanti alla stessa Procura del Coni.
Colpisce, dunque, la leggerezza. Con cui si parla di salbutamolo. Come se il salbutamolo usato in grandi concentrazioni, tali perfino da provocare possibili e probabili danni al cuore (aritmie e tachicardia sono dimostrate, con buona pace dei medici che lo prescrivono) fosse poco più che un caffè preso al bar. In queste frasi e in questi concetti, espressi da molti c'è tutto il ciclismo e il perchè questo sport si dibatte e si dibatterà perennemente in mezzo alla melma del doping. La spiegazione è semplice. Non si ragiona su principi etici, ma il concetto che passa è quello che ci si prova comunque. La filosofia è chiara e lampante. Una sostanza è vietata? Ebbene - direbbe l'etica a cui fa riferimento perfino il tanto bistrattato codice dei gruppi sportivi - non la si assume. Non si dovrebbe. No: una sostanza è vietata, però si cerca il modo per farla ugualmente, per avere comunque un vantaggio sugli avversari. Farne quel tanto perchè non si "smargini" rispetto ai "tetti" fissati, farne anche di più se occorre, tanto un certificatino che sei asmatico oppure che hai l'ematocrito o il testosterone elevato "naturalmente" non si nega a nessuno. Certificati-ombra, molte volte. Nel 2001, durante l'inchiesta che sfociò poi nelle famose perquisizioni al Giro (Sanremo), emerse perfino che sette certificazioni che consentivano l'uso per esenzione terapeutica di sostanze altrimenti ritenute dopanti erano state fatte dallo stesso medico: un ostetrico. Il che la dice lunga sul fatto che poi certe abitudini si consolidino. Trovano sempre il mediconzolo di turno pronto a metterci la firma, in cambio di pochi euro o poche lire.
E' questo il vero cancro del ciclismo. Questa disponibilità psicologica (e pratica, poi) alla "furbizia", al trucchetto. Assecondata da uomini senza scrupoli. Che vanno giù a cuor leggero: "Non sarà mica il salbutamolo il vero doping? Ci si dopa col salbutamolo? Via!". Stesso discorso per l'ormai depenalizzata caffeina, per i glucocorticoidi, per gli anestetici locali, gli anabolizzanti a rapida scomparsa (ce ne sono che svaniscono in tre giorni), il salbutamolo, ovviamente, la terbutalina, l'emotrasfusione e la stessa vietatissima eritropoietina che è possibile iniettarsi fino a 3-4 giorni dalla gara. Il tutto in uno slalom infernale fra dosi, concentrazioni, diluizioni, iniezioni, pasticche, siringhe. Gonfia e sgonfia continuo: che bella la vita del corridore! In buona sostanza il filo conduttore è unico: il non il rispetto dei principi etici, e un eterno schivare di misura i paletti che di volta in volta pongono le regole antidoping, stando bene attenti a trovare la falla giusta da cui passare. Inutile illudersi, se non cambia questo modo di ragionare nessuna lotta al doping potrà avere successo più di tanto. Ma per cambiare occorrerebbe cambiare gli uomini che oggi fanno e regolano il ciclismo. Che, ahimè, sono quello che sono. Dunque il ciclismo resta condannato agli scandali perenni.
A proposito di asmatici. Due dei quattro controllati la sera dello Zoncolan al Giro (Di Luca, Mazzoleni, Piepoli e Riccò) avevano la loro brava esenzione terapeutica che certificava come fossero asmatici, dunque bisognosi del famigerato slabutamolo. Orbene, se c'è un momento in cui un asmatico va in crisi è proprio quando affronta uno sforzo che richiede una grande iperventilazione polmonare. Prima, durante e dopo lo sforzo. Figuriamoci sullo Zoncolan. Ci si sarebbe aspettato, dunque, dagli "asmatici", il ricorso in massa al farmaco in questione, quindi si sarebbero dovuti riscontrare valori anche elevati di salbutamolo nelle urine; specie dopo una tale prova fisica sfiancante. Invece: niente. Neppure una molecola per i nostri due eroi. E allora i dubbi nascono, crescono ed esplodono. Come mai si verifica tale circostanza? Delle due l'una: o i nostri beneamati pedalatori NON sono asmatici e usano il certificato per assumere salbutamolo allo scopo di anabolizzarsi, cioè di doparsi all'occorrenza; oppure, SE sono asmatici hanno fatto ricorso a qualche altro marchingegno furbetto.
A dipanare la matassa viene in aiuto lo stesso Stanga, il quale racconta senza il minimo imbarazzo come, durante la visita fatta da lui e Petacchi all'Uci, non appena scoppiato il caso della positività al salbutamolo, lo stesso medico della federazione internazionale gli abbia spiegato con un sorriso. "Ma come? Usate ancora il salbutamolo? Perchè non fate come gli altri che usano la terbutalina, ha lo stesso effetto e non viene fatta una ricerca quantitativa nelle urine". Ergo, se ne può assumere in quantità industriali, senza la minima preoccupazione. La sostanza è giustificata dall'esenzione terapeutica ed è di libero uso quanto a dosi. Come dire: se si cerca l'effetto anabolizzante nel salbutamolo assumendone in quantità, perchè rischiare? Meglio la terbutalina. Te ne fai quanta ne vuoi e nessuno ti può dire nulla. E' un "buco" nelle ormai slabbrate maglie dei controlli antidoping. Un buco enorme, che tutti conoscono, ma nessuno fa il minimo passo per ovviare. Con buona pace della credibilità di tutto il sistema dei test. Il bello (e l'edificante per chi dovrebbe fare la cosiddetta lotta al doping) è che a suggerire l'escamotage non è il solito tam-tam del plotone, bensì uno dei responsabili dei controlli Uci. Il che la dice lunga su tutto il sistema.
Facile immaginare la rabbia di Stanga & C. Ma come? C'è un prodotto "libero" e ce lo dite ora, dopo tre anni che presentiamo la regolare documentazione per l'asma? Singolare è che a suggerire il prodotto "libero"sia proprio uno dei personaggi più in vista dell'antidoping dell'Uci. Come se un carabiniere suggerisse al ladro il modo di rubare senza correre il rischio di finire in prigione. Si può sbagliare pensando che i due "asmatici" del Giro si siano strafatti di terbutalina? Si può sbagliare, ma è una possibilità. Loro forse "sapevano" il trucco altri no. E a chi giova questa disparità?
BASSO , L'IPOCRISIA E IL GIORNO DEL GIUDIZIO
Giugno 2007 - Per Basso arriva il giorno della verità e delle sentenze. Dalla decisione della Disciplinare della Federciclismo che oggi, 15 giugno, esamina il suo caso dipende tanto del suo futuro prossimo. Basso si presenta con una richiesta di squalifica di 21 mesi, fatta dalla Procura antidoping del Coni, per il suo coinvolgimento (confessato) nella vicenda spagnola “Operacion Puerto” e per il tentato doping ematico. Ma si annuncia subito battaglia. Basso e l’avvocato Martelli, infatti puntano ad una ulteriore riduzione della pena, mentre il Coni si dice fermo sui 21 mesi. E siccome l’ultimo giudizio spetta all’ente del Foro Italico con il suo tribunale arbitrale, a meno di importanti (e improbabili) novità quella dovrebbe essere la cifra. Per contro l’Uci mostra un’inflessibilità degna di miglior causa: due anni senza sconti. Leon Schattemberg, responsabile dell’antidoping ha ribadito che “Non ci sono elementi che consentano di adottare una sanzione inferiore ai due anni. Mentre noi apprezziamo il lavoro fatto dal Coni nonché lo sforzo per inquadrare il caso nel suo contesto regolamentare e legale - si legge nella lettera dell'Uci - dobbiamo sottolineare che i motivi invocati per proporre una riduzione della sospensione a 21 mesi non sono conformi alle esigenze regolamentari". "Non è dunque possibile - conclude Schattemberg - ridurre la sanzione di due anni di sospensione e l'Uci insiste, in virtù dell'art. 233 RAD, che venga imposta una sospensione di due anni. Se così non fosse, l'Uci, così come l'agenzia mondiale antidoping, sarebbe costretta a fare appello al Tribunale d'arbitrato dello sport, cosa che non farà gli interessi del nostro sport, nè della vostra federazione, nè dello stesso corridore". Insomma, l’ennesimo braccio di ferro.
Per la difesa, c’è stato comunque un atteggiamento collaborativo (l’ammissione di colpevolezza quanto al tentativo di doping, riconoscendo che le sacche di sangue sequestrate nel laboratorio del famigerato Fuentes erano le sue), circostanza, però, già valutata dalla Procura Coni che ha scontato tre mesi dai due anni richiesti dalle regole. E una parte della pena sarebbe già stata scontata con le sospensioni dall’attività già subite dalle sue ex squadre, la Csc e la Discovery Channel. Molto dipenderà da quando verrà fatta partire la squalifica. L’obbiettivo di Martelli è riportare alle corse Basso già nella prossima tarda estate. Ma con l’Uci così schierata contro sarà dura. Un atteggiamento che non si capisce, perché i corridori, sia pure colpevoli, non sono che una parte del problema doping: che nella realtà è un mosaico di cui fanno parte tecnici, allenatori, medici, massaggiatori, dirigenti sportivi. Ed è singolare come non sia stata presa alcuna sanzione nei confronti di Manolo Saiz, l’ex componente del direttivo Uci, colto in flagrante e messo agli arresti per qualche tempo dalla Guardia Civil nell’Operacion Puerto e poi si insista per una punizione “esemplare” di Basso. Pesano i rapporti di amicizia fra Saiz e l’ex presidente Verbruggen, oggi potente membro del Cio? Ivan ha sbagliato e merita di essere punito. Ha sbagliato due volte, perché ha mentito e perché ha avuto la palla sul dischetto del rigore (confessare tutto e contribuire ad una reale svolta nella lotta al doping), ma ha rinunciato a dare un contributo più concreto e fattivo e questo non è piaciuto neppure ai suoi stessi fans. Però, come dice il poeta, il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare. E per Basso adesso si apre la stagione dei ricorsi e controricorsi. Si annuncia una lunga e triste telenovela. Se la sarà voluta.
Ma, nel valutare complessivamente la sua vicenda, non si può non tener conto dei diversi livelli di giustizia (o di ingiustizia, se preferite) che si sono appalesati in questi sofferti mesi di indagini, scoperte, denunce. I corridori spagnoli coinvolti nell’Operacion Puerto sono tutti uccel di bosco, liberi di gareggiare e vincere. In barba perfino al tanto decantato codice etico che le stesse formazioni pro tour si sono imposte. Solo per violarlo regolarmente?
In Spagna federazione ciclismo e Comitato olimpico hanno chiuso entrambi gli occhi. E’ giusto? Per non parlare di calciatori e tennisti frequentatori di Fuentes, di cui pure ha parlato lo stesso medico spagnolo e di cui non si è riusciti a sapere ufficialmente neppure i nomi. Nella lotta al doping non servono punizioni esemplari, serve la certezza che tutti, una volta scoperti, paghino la pena stabilita. Anzi, spesso le punizioni esemplari servono solo a coprire la mancanza di volontà di risolvere il problema. Si spara sul nome grosso e poi tutto continua come prima con tecnici (anche federali) in passato coinvolti in equivoche vicende che ricoprono importanti cariche. Con medici indagati per doping che restano al loro posto e addirittura pontificano sul doping. Con tecnici che fino a ieri facevano la formazione in base al valore (elevatissimo) dell’ematocrito dei propri corridori, che hanno la faccia tosta di presentarsi ancora in gruppo. Se è giusto dare una seconda chances a tutti, allora non si può essere inflessibili con qualcuno.
Sul fronte delle tre “non negatività” al Giro, si chiarisce la situazione dello spagnolo Iban Mayo. I test effettuati al laboratorio di Roma (IRMS, isotopi carbonio 12-13) attestano come la super-produzione di testosterone registrata dalle analisi sia di natura endogena. Nessuna molecola esterna, dunque. E, dal momento che l’iberico della Saunier Duval può dimostrare che anche in passato si è trovato ad avere valori elevati di quest’ormone. In sua difesa - incredibile, ma vero, interviene addirittura l’Uci che in un breve comunicato attesta che «Iban Mayo non ha violato il regolamento antidoping dell'Uci». Restano gli altri due casi, il salbutamolo in eccesso (sopra i 1000 ng/ml) per Petacchi e Piepoli. «Per questi, le analisi richieste dall'Uci sono ancora in corso», dicono da Losanna. Il laboratorio romano ha spedito le provette a Barcellona, su indicazione della stessa Uci, in quanto non tenuto a fare ulteriori analisi se non su richiesta dell’atleta. Si cerca di verificare la tipologia dell’assunzione, consentita solo per aereosol. Ma, anche se il test è semplice sarà difficile arrivare ad una determinazione certa. Picchi elevati nelle urine si possono trovare anche se l’assunzione ripetuta viene fatta anche durante la gara stessa. Anche se è quasi impossibile spiegare i 1.400 o i 1.800 ng/ml con l'assunzione aereosol. Alla Milram e alla Saunier Duval, comunque sono tranquilli: Petacchi e Piepoli soffrono di allergia e il documento annuale che certifica il bisogno di salbutamolo sarebbe, secondo le squadre, perfettamente in regola. Sconcerta, tuttavia, l’enorme quantità rilevata nei test (1400 e 1800 ng/ml, quando la media rilevabile in un asmatico che usa questa sostanza per cura raramente sfiora i 500 ng/ml) e probabilmente in merito i due corridori dovranno essere sentiti dalla Procura Coni. Al Foro Italico si dicono seccati della situazione e il presidente Petrucci medita un prossimo intervento per chiarire la annosa questione delle esenzioni terapeutiche. Del resto c’è una sentenza di Cassazione, sul caso Juve, che considera doping anche l’abuso di farmaci e/o il loro impiego “off label”. C’è attrito con l’Uci. E sfiducia. Che potrebbe essere recuperata, per esempio, mettendo a confronto i test fatti dalla federazione internazionale al Giro e quelli sui 4 corridori di vertice eseguiti per conto della Procura del Coni dopo la tappa dello Zoncolan. Per comparare valori e situazioni a poche ore di distanza. Test negativi, ma, forse proprio per questo, da verificare e comparare meglio.
Ecco un altro nervo scoperto che rende vana la lotta al doping. Tanti test e risultati modestissimi.
Se si pensa che la caffeina è di uso libero (anche se è da dimostrare che l’assunzione di pasticconi da 200-250 milligrammi, equivalente ad una quindicina di caffé presi tutti insieme, non sia dannosa per la salute: uno dei criteri per cui, secondo la Wada una sostanza dovrebbe essere inclusa fra quelle vietate); che per i glucocorticoidi basta una esenzione terapeutica semplice e le pomate addirittura sono consentite senza alcuna restrizione: il che vuol dire uso libero del cortisone; che la cocaina è ricercata solo in gara; che per molte sostanze definite “specifiche” si può ottenere una sostanziosa riduzione di pena se si stabilisce che non sono state usate per migliorare la prestazione; che molte molecole (SportPro ne ha contate oltre 200) sono assolutamente trasparenti ai controlli; se si somma tutto questo si capisce quale (volutamente?) inutile battaglia stiano conducendo le autorità sportive preposte alla lotta al doping. E' ora di mettere un punto fermo. Di dire basta. Tempo scaduto per prove e controprove. Si vuole cambiare veramente? E allora occorre togliere il meccanismo di controllo dalle mani e dall’influenza del mondo sportivo che ha tutt'ora l'esclusiva dei test. Creare quell’agenzia esterna e indipendente che la Francia ha già. Che pensi alla tutela della salute degli atleti prima di tutto. Un obbiettivo concreto, non l’utopia illustrata dall’attuale 376/2000, peraltro governata da una commissione di vigilanza (Cvd) dove la componente sportiva è prevalente. Dulcis in fundo, il russo Filippov, giovane e rampantissimo dilettante è l’ultimo positivo. Per epo, non una bazzecola. La data: il 25 marzo scorso dopo la “piccola” Sanremo. La prova che il sistema è refrattario ai cambiamenti e che la madre degli imbecilli è sempre incinta.
DA COUTO ALLA CVD, LE CONTRADDIZIONI DELLA LEGGE ANTIDOPING E DELLA SUA GESTIONE
Aprile 2007 - Quattro mesi con la condizionale per Fernando Couto e 4.000 euro di multa per violazione della legge antidoping. Questa la sentenza del processo di Firenze dove il calciatore portoghese era imputato per essere risultato positivo al nandrolone il 28 gennaio del 2001 dopo Fiorentina-Lazio, la formazione per la quale all’epoca giocava. Niente più shampoo o carne contaminata e neppure i vermi, fra le tante coreografiche e suggestive spiegazioni che spuno come funghi in questi casi quando si rilevano valori abnormi. Una sola parola, semplice e definitiva: doping da nandrolone e basta. Questo il primo verdetto del giudice di Firenze, cui probabilmente Couto, per il quale l’avvocato Longo aveva chiesto l’assoluzione piena, si opporrà in appello. Il pm Luigi Bocciolini, che aveva coordinato le indagini condotte dal Nas di Firenze, aveva chiesto sei mesi di reclusione e 5.000 euro di multa. Nelle rete della legge 376/2000 finisce, dunque anche un calciatore di un certo rilievo. Prova che sul piano dei procedimenti penali e delle indagini la legge continua a funzionare. Dove invece lascia il campo aperto e fa acqua da tutte le parti è su gran parte del resto: dai controlli poco efficienti e assai poco incisivi come deterrente (positività attorno al 2% e per lo più ricavate su sport "minori"); alla gestione dei finanziamenti, circa 3.500.000 euro l’anno, di cui 1.300.000 spesi per la cosiddetta ricerca antidoping in modo assai discutibile e soprattutto con risultati quasi impalpabili.
Funziona a scartamento ridotto la commissione di vigilanza sulla legge (Cvd), per le riunioni della quale vengono stanziati ben 100.000 euro l’anno (gettoni di presenza). Tant’è che lo stesso presidente Zotta è obbligato ad un richiamo ufficiale: si rischia la mancanza del numero legale. Il che la dice lunga sull’interesse a far fronte concretamente ad un fenomeno che per dimensioni e “giro” economico è ormai diventato un problema di salute pubblica, come riconoscono gli esperti del settore. L’attenzione arriva quando si deve discutere il bilancio e la distribuzione dei soldi: 985.000 euro per le campagne informative; 1.300.000 euro per la cosiddetta ricerca; 17.000 per supporti, strumenti vari e rapporti internazionali; ecc. Si parte dalla definizione, spesso criptica, del progetto di ricerca, come “Definizione dei limiti di interpretabilità del dato di laboratorio nei controlli antidoping: markers di esposizione e markers di effetto” e “per li rami” si arriva a finanziare sostanziosamente (400.000 euro) ricerche che si stenta a comprendere quale utilità possano avere nell’arginare il fenomeno della farmacia proibita.
Difficile capire perché si finanzi una ricerca sui metaboliti della sibutramina, quando su Internet sono già a disposizione da anni informazioni in merito. Difficile capire la relazione fra la lotta al doping e la ricerca sui campioni biologici dei soggetti coinvolti in incidenti stradali, fumatori, alcoolizzati e tossici. Per scoprire che su 2450 soggetti analizzati nei Sert si riscontra il 9% dei positivi e che dei 165 individui implicati in incidenti stradali il 24% è positivo all’etanolo (alcool) e il 50% a sostanze psicotrope? Tale attività è finanziabile oppure rientra nei compiti istituzionali delle unità operative coinvolte nella ricerca? E lo sport come c’entra in tutto questo? Mentre il doping si diffonde sempre più fra i giovani (come certe droghe, del resto) si corre dietro a ricerche che restano spesso appese a semplici “ipotesi” e raramente a riscontri concreti. Su una settantina di "lavori" finanziati negli anni precedenti solo deci-dodici, secondo le stime ufficiali, sarebbero arrivati a conclusione. La strada è ardua e difficile, nessuno lo nega, ma davvero non è possibile investire meglio questi denari che sono pubblici? E del rapporto costi-benefici non si interessa nessuno?
Per contro, quanto si dovrà aspettare perché una delle poche proposte veramente interessanti trovi appoggio e seguito adeguato dalle istituzioni preposte? Riguarda una sostanza, l’ormone della crescita (Gh), usata ed abusata alla grande nello sport proprio perché introvabile ai test. Si tratta di un test antidoping messo a punto dal professor Muller, uno dei massimi esperti mondiali in tema di gh. Semplice e relativamente poco costoso. Prende le mosse dall’ormai diffuso ed accettato concetto del monitoraggio partendo dai valori basali dell’atleta e prevede due livelli di analisi: uno screening iniziale sulla variazione di tre parametri (gh, IGF1 e turnover di sostanze che stimolano la formazione delle ossa) e un test di secondo livello che prevede la somministrazione di un ormone (Ghrelina) attraverso cui si evidenzia la risposta del fisico alla produzione endogena di gh. Se la risposta è scarsa vuol dire che l’atleta è sotto “cura”. L’analisi ha un limite nell’invasività; occorre comunque il consenso dell’atleta perché accetti di ingerire una sostanza esterna, ma l’elevata efficienza del test e la possibilità di individuare assunzioni avvenute anche alcune settimane prima potrebbero essere l’arma vincente. La legge, infine, aveva previsto la costituzione dei laboratori regionali, destinati al controllo sul territorio, un’altra arma importante che avrebbe consentito screening diffusi e un monitoraggio capillare. Ma la proposta di un modello di riferimento probabilmente troppo sofisticato ha fatto in modo che ad anni di distanza dall’approvazione delle norme, ci sia la richiesta di accredito per un solo laboratorio, quello di Firenze, che già svolge attività antidoping attraverso diverse convenzioni con Comuni toscani. Per gli altri due o tre occorrerà aspettare ancora. Legge tradita e tempo prezioso concesso al sempre più florido mercato della farmacia proibita.

CADUTE E RITIRI: MA COMPETENZA E TECNICA CHE FINE HANNO FATTO?
Marzo 2007 - Il finale della Milano-Sanremo è stato un turbinio di rovinose cadute, alcune delle quali (come quella del povero Moletta) con conseguenze piuttosto gravi: frattura del femore. La responsabilità di tali dolorosi accadimenti che per puro caso - tra una frattura di setto nasale e ferite varie - non si sono trasformati in tragedie vere e proprie, accanto alla solita frenesia che contraddistingue le fasi calde della corsa dei fiori, è stata dai più attribuita a fattori tecnici: le gomme troppo gonfie, l'uso di ruote ad alto profilo, i telai di carbonio troppo rigidi, ecc. E' probabile che la responsabilità sia da ricercare in una serie di fattori, in una commistione di queste concause. Ma, se così stanno le cose, c'è subito da chiedersi come mai possano accadere certi fatti. In base a quali criteri, cioè, siano fatte scelte da cui dipende non solo l'esito agonistico di una corsa importantissima, ma anche e sopratutto la salute dei corridori. Vediamo. Le gomme troppo gonfie. Secondo i più le cadute sarebbero da attribuire in larga parte alle gomme portate a 9-10 atmosfere, accorgimento usato per avere un rotolamento migliore. Minore la parte che sta a contatto con l'asfalto, maggiore la scorrevolezza. I tubolari e i copertoncini moderni consentono oggi di fare ricorso anche su strada a pressioni altrimenti usate solo per le gare sulle superfici lucide e lisce dei velodromi. Ma tutti, anche i meno esperti fra il folto pubblico attorno alla partenza dal Castello Sforzesco di Milano sapevano che in Riviera il tempo era uggioso, che c'era ampia probabilità di pioggia, che le strade sarebbero state come minimo bagnate. Insomma: che si sarebbero trovate condizioni difficili. Nonostante questo si è scelto di gonfiare le gomme ugualmente ad alta pressione, quando tutti i manuali in quelle condizioni sconsigliano di superare le 7-8 atmosfere. Una scelta incomprensibile. A meno di non avere a che fare con professionalità di assoluto secondo piano. Domanda: ci sono più i meccanici di una volta? Un identico discorso si può fare per la scelta delle ruote ad alto profilo. Non è certo una novità che quando il plotone sbuca dal Turchino e comincia la sua galoppata verso Sanremo sulla strada che costeggia il mare le probabilità di trovare vento contrario o laterale sono altissime. Come in tutti i posti di mare. Sabato, il sabato della Sanremo c'era in molti tratti del percorso un forte vento in parte contrario al senso di marcia, in parte laterale. E questo fattore complica di molto la guida delle ruote ad alto profilo che, proprio per la loro natura, hanno un effetto giroscopico maggiore e dunque una manovrabilità inferiore. Ma, come tutti hanno potuto vedere, la scelta delle ruote ad alto profilo è stata quasi generale. Dov'è finita la competenza necessaria alle scelte giuste? E' un ciclismo che disorienta anche per questo: è diventato incomprensibile. Un ciclismo dove competenza e tecnica sembrano illustri sconosciuti. Corridori che vincono una grande classica e poi scompaiono vittime di improvvise malattie; atleti che esplodono di botto con prestazioni mirabolanti come fossero funghi; corridori che puntano l'intera stagione su un obbiettivo e poi, una volta fallito, scoprono che sono stanchi, che hanno corso troppo, che hanno bisogno di riposo.
E' successo al buon Petacchi. "Mi sento stanco dal punto di vista psico-fisico", ha spiegato così il ritiro dalla settimana Coppi&Bartali. "L'avvicinamento alla Milano Sanremo è stato lungo e faticoso, perchè impostato con il difficile obiettivo di vincere. Mi sono allenato tantissimo questo inverno e ho corso più degli altri anni per cercare di recuperare terreno sui miei avversari dopo gli infortuni dell'anno scorso. Avevo deciso io di venire a correre questa gara, non mi ha obbligato nessuno, ma purtroppo il tempo non ha certamente favorito la mia condizione. Ero convinto che correre tanto, anche dopo la Milano Sanremo, mi avrebbe aiutato a proseguire il mio recupero atletico, ma in realtà, mi sono accorto che, in questo momento, ho solo bisogno di recuperare le energie". Petacchi rientrerà al Giro di Colonia il 9 aprile per cercare di fare bene alla Gent-Vewelgem. "Dopo preparerò il Giro d'Italia nel migliore modo possibile".
E' perfettamente comprensibile la posizione dell'atleta che si è impegnato tanto per recuperare il gap accusato dopo il drammatico incidente al Giro. E' stanco. Ma c'è da domandarsi chi e come ha impostato i suoi programmi di allenamento per arrivare a questo punto. Un principiante, nella migliore delle ipotesi. Perchè tutti gli allenatori professionisti sanno che il nemico numero uno è il temutissimo "overtraining", il sovrallenamento. Una condizione in cui cade più facilmente chi ha l'ansia (e anche l'ammirevole scrupolo) di recuperare. Nessuna colpa al volonteroso Alessandro, che magari si è limitato a seguire tabelle preparate per lui. Ma oggi monitorando l'allenamento nel modo giusto è più facile evitare di incappare in questa condizione che svuota le gambe e richiede un recupero proporzionale alla gravità del sintomo. Possono essere giorni, ma più spesso anche settimane, seguendo le norme della tradizionale fisiologia. E allora c'è da chiedersi di quale competenza tecnica disponga chi non si è accorto in questi mesi di dura fatica e avvicinamento alla "Sanremo" (cui il "velocista gentiluomo" è arrivato svuotato: lo si è visto dalla volata - appena accennata - in Via Roma) che si era accesa la spia rossa. Allenatori? Quali allenatori? Per curiosità siamo andati a controllare quanti allenatori siano ufficialmente a disposizione delle squadre professionistiche Pro Tour. Ebbene, di medici ne trovate a iosa, anche quattro-cinque in talune formazioni, ma di allenatori la miseria di un paio (Quick Step e Euskatel Euskadi). Anche questo un segnale di quanto sia incomprensibile questo ciclismo. Oppure comprensibilissimo, secondo i punti di vista.
MCQUAID, L'UCI, IL DOPING E LA "CULTURA MAFIOSA"
Gennaio 2007 - “E’ in atto una lotta fra due culture: quella anglosassone e quella che definirei cultura mafiosa dell’Europa occidentale”. Il presidente dell’Uci, con tutti i guai che si ritrova il ciclismo (in primis il disastro sul piano della credibilità e dell’immagine che è sotto gli occhi di tutti), non trova di meglio, parlando di doping alla televisione danese, che alludere allo scarso impegno su questo terreno di paesi come Spagna, dove, però, è venuto alla luce lo scandalo doping più clamoroso degli ultimi anni con l’Operacion Puerto, e Italia. “A causa del modo di vivere che c’è lì, la cultura dell’Europa occidentale è una cultura che in una certa misura non direi perdoni il doping e tutte quelle pratiche che mirano ad imbrogliare, ma tende ad accettare certe cose”.
Sorprende l’accalorarsi sul tema del presidente di una federazione (l’Uci) che ha fatto di un discutibile sistema di controllo antidoping, che fa acqua da tutte le parti, una bandiera dietro cui nascondere tutte le falle del movimento. E viene da domandarsi se tanto astio non abbia radici in altre motivazioni. Per esempio la ribellione di certe federazioni nazionali (guarda caso fra quelle cui si allude pesantemente) al pasticciato e discusso varo del Pro Tour.
Non intendo (sarei il meno credibile) fare la difesa d’ufficio del ciclismo nostrano, ancora fortemente impregnato della cultura del doping e dell’imbroglio, come gran parte del ciclismo mondiale. Come gran parte dello sport mondiale. In Italia abbiamo i nostri guai e i segnali concreti di una vera inversione di marcia sono ancora di là da venire. Non basta certo fare come il presidente Di Rocco che, un po’ pilatescamente dice di aver affidato tutti i controlli al Coni: “Ad un soggetto esterno alla federazione, per evitare gli errori del passato”. Ma almeno il presidente della Fci ammette che in passato ci sono stati errori.
Però l’Uci, e men che meno il suo presidente, hanno titolo per parlare su questo tema. Il passato anche recente dell’ente internazionale non è certo entusiasmante sul fronte della lotta al doping. Basta vedere quanto il fenomeno si è allargato negli ultimi anni. Parlano le vicende giudiziarie e i mega sequestri delle forze dell’ordine, piuttosto che le ridicole percentuali dei laboratori antidoping, in media: 1% di positività (e di questo 1%, un terzo sono cannabinoidi...). Si dopano anche i ragazzini di 15 anni. Si dopano gli junior e perfino gli “amatori”, mentre ex professionisti dopati (condannati per doping) continuano impunemente a frequentare il ciclismo (e vincere gran fondo), solo perché portano soldi, tessere e, in una parola, smuovono il business. Senza che nessuno alzi un dito. Una debacle totale o quasi. Eppure nella forma i dirigenti internazionali continuano a vantare il loro sistema. Un sistema elaborato, ma assolutamente inefficace. I risultati, dopo anni di test “rivoluzionari” e “all’avanguardia”, di “analisi incrociate” varie e di controlli ematici a tappeto (dal 1997, l’Uci è stata la prima federazione) sono un vero fallimento. Forse che il doping nel ciclismo è diminuito? Forse che i medici dopatori sono scomparsi? Forse che i giovani e i giovanissimi sono seguiti e controllati con più attenzione? E a cosa serve fare migliaia di controlli e di analisi antidoping se poi ai test sfugge la gran parte delle sostanze e delle pratiche più efficaci per barare? Solo a dare una finta “patente” di “pulizia” al movimento e agli atleti che riescono facilmente a svicolare fra regole e regolette che sembrano fatte apposta per favorire l’inganno e la truffa. A cominciare dallo stesso codice della Wada che, a partire dal 1999, quando è stato varato, non ha fatto che registrare continui colpi di freno. In rapida progressione sono state depenalizzate un numero incredibile di sostanze e di pratiche: dalla caffeina del cui “programma di monitoraggio” dopo tre anni nessuno sa nulla; alla cocaina, ricercata solo in gara; ad un numero cospicuo di ottimi stimolanti (7, fra cui anche la pseudoefedrina, mentre l’efedrina si può assumere fino ad una concentrazione nell’urina di 10mcg/mL); ai glucocorticoidi (a base di cortisone) che in “preparazione topica” (affezioni dermatologiche, auricolari, nasali, oftalmiche. ecc.) sono di libero uso (per il resto basta l’esenzione terapeutica); alle infusioni, prima vietate e oggi lasciate al libero arbitrio del medico: è bastato togliere la paroletta “acuto” dalla definizione “nel quadro di un legittimo trattamento medico”. E quale medico dirà mai anche non in presenza di una necessità “acuta” che il suo trattamento non è stato legittimo? Poi ci sono le cosiddette “sostanze specifiche” vietate, ma accessibili quando “lo sportivo può stabilire che (tale sostanza) è particolarmente suscettibile di portare una violazione non intenzionale delle regole antidoping, tenuto conto della sua presenza frequente nei medicamenti”. Come dire: basterà giustificarsi con la non volontarietà (“era nella pasticca per il mal di testa; era nella pomata per le cicatrici”, “non lo sapevo”...), per far passare tutto o quasi.
Quanto alle famigerate pratiche ipossiche, ci si limita a dire che “non sono etiche”, ma non si proibiscono (come fa, invece, l’Italia con la sua legge antidoping). Anche se danneggiano potenzialmente la salute e modificano la prestazione, cioè rientrano in due dei tre “requisiti” perché una sostanza o una pratica debba essere inserita fra quelle vietate. Per la stessa Wada.

Ogni anno un passetto indietro, come i gamberi, nella più completa atarassia di tutte le federazioni internazionali. A cosa serve un sistema antidoping in cui si può assumere di tutto o quasi? Eppure questi temi non sembrano preoccupare minimamente il prode McQuaid e l’Uci, che un certo peso e un certo ruolo in seno alla Wada lo hanno ancora.
Un dirigente del Coni confidava nei giorni scorsi che la percentuale delle positività rilevate salirebbe in modo esponenziale se non ci fossero le cosiddette “esenzioni terapeutiche”, frase anch’essa piuttosto pilatesca, che cela la concessione di poter usare sostanze dopanti e/o pratiche proibite. “E’ lì il problema - diceva - se uno è malato si curi e non gareggi”. Giusto, logico e perfino sorprendente da parte di un rappresentante di un ente che, non dimentichiamolo, non ha trascurato nulla in passato per la più feroce caccia alle medaglie, doping “di Stato” compreso. Ma l’Uci cosa ha fatto e cosa fa in questo campo?
Quanti sono i corridori che hanno l’esenzione terapeutica? Quanti quelli cui è consentito “smarginare” per valori ematici o metabolici “naturali” più elevati di quelli consentiti? Perché il tanto sbandierato “suivi medical” che prevede un’infinità di analisi (spesso inutili e mal controllate: dal plotone giungono voci che con un computer e una stampante si può fare qualsiasi miracolo...) non è stato approfondito e perfezionato? Perché ci sono voluti anni prima di cominciare a parlare di “valori individuali di base” - che l’Uci, visti i tanti test che conduce ed ha condotto negli anni, potrebbe facilmente avere a disposizione - e si continua a fare riferimento a “barrage” assoluti (come il 50% dell’ematocrito o il 4:1 nel testosterone o i 5mg/dL per il nandrolone), limiti ampiamente “garantisti” che consentono ad una vasta media di atleti di “riempire” il gap fra i propri valori più bassi e il tetto fissato, e di ricorrere al doping senza rischi o quasi? Al “Processo alla tappa” in una frazione dell’ultimo Giro d’Italia, abbiamo personalmente segnalato a McQuaid la tragica realtà di una lista antidoping che è un vero e proprio colabrodo con almeno 200 molecole diverse (stimolanti, anabolizzanti, ormoni, ecc.) che neppure vengono ricercate. Cosa ha fatto in questi mesi l’Uci per affrontare questo problema?
E stendiamo un velo pietoso sui tempi - non lontani - in cui l’ex numero uno dell’Uci diceva, rivolto a Bruno Russel, uno dei dirigenti della famigerata Festina, la squadra dello scandalo doping del Tour 1998: «Guarda che posso trovarti un corridore positivo quando voglio». Una frase pesante riportata dallo stesso Russel nel suo libro, ma che, ove corrispondesse alla realtà, lascerebbe pensare ad un “sistema” di controllo antidoping assolutamente manipolabile e indirizzabile. McQuaid dovrebbe spiegare e chiarire tutto questo prima di parlare di mafia. Intendiamoci, il rischio che sia davvero così è reale e concreto, ma non si tratta di “cultura anglosassone” integerrima piuttosto che “cultura mafiosa” dell’Europa occidentale, bensì di “cultura” degli affari e del business ormai “mondializzata” che porta dritta al doping, cui lo sport moderno si è consacrato e contro cui nessuna "autorità" sportiva, Uci in primis, fa qualcosa.