L’isola di Pasqua e la lotta per l’autonomia: la sfida della “barca di pietra” Stampa
Scritto da Santoni Maurizio   
Domenica 01 Ottobre 2017 08:43

   

il Salto – Blog di transizione

 
 
 
Emanuele Profumi

L’isola di Pasqua e la lotta per l’autonomia: la sfida della “barca di pietra”

Testi e foto di Emanuele Profumi

I suoi abitanti la chiamano “l’ombelico del mondo”, ma l’isola di Pasqua è uno dei posti più isolati del pianeta. Se si sale sull’antico vulcano Terevaka, il suo punto più alto, si vede chiaramente la caratteristica forma ad U che fa sembrare il suo perimetro una canoa d’altri tempi. Una barca immobile nell’oceano, di pietra vulcanica, divenuta simbolo ufficiale del suo popolo ancestrale, i Rapa Nui. Nata da tre grandi esplosioni vulcaniche 700mila di anni fa, l’isola diviene ufficialmente parte del Cile nel 1888. Dal 1990, dopo la creazione dell’aeroporto, è al centro di un intenso flusso turistico internazionale, soprattutto per via dell’affascinante storia dei Moai, le curiose statue dalla testa enorme e dal viso rettangolare che hanno stimolato la più selvaggia fantasia esoterica dei “professionisti del mistero”. Simboli, in realtà, del tradizionale potere sociale e religioso Rapa Nui, le enormi creazioni di pietra lavica si trovano sparse ovunque sui 165 km di terra dell’isola, come fossero degli antichi guardiani giganti dediti alla difesa del suo prezioso territorio. Al di là dell’immaginazione questo compito, invece, lo ha assunto ormai da anni tutta la comunità indigena. Così oggi orienta il centro della vita civile e politica isolana nella relazione d’amore e odio che ha con lo Stato cileno.

I Rapa Nui, infatti, si dividono profondamente tra coloro che rivendicano un’autonomia forte rispetto al Cile, sottolineando l’identità polinesiana del popolo, e chi invece vorrebbe che lo Stato li consideri a tutti gli effetti cittadini sudamericani.

Moai
Alfonso Rapu

Le radici del presente

Chi ha fatto la storia recente dell’isola di Pasqua, ne ha difeso il territorio e ha lottato per migliorare le condizioni di vita di tutti, è Alfonso Rapu, il primo sindaco di Hanga Roa, “capitale” e unico paesino del posto. È lui il primo che ha obbligato il Cile a prendersi cura dell’isola, e, con i suoi 75 anni, è considerato un’istituzione vivente. Tutti sanno dove abita e come trovarlo.

Quando lo incontro in una delle tipiche case basse, piene di alberi da frutta, galline, cani e gatti, che scorrazzano liberamente, mi rendo conto che la sua battaglia, in effetti, è stata eroica. Mi accoglie con un sorriso vero, una camicia tipo hawaiana, e con grandi occhiali da sole anni ’80. “A quel tempo valorizzavano più le pecore che le persone: eravamo dei numeri, ogni famiglia ne aveva uno. La vita era dura e mi sono dedicato a recuperare la tradizione orale del mio popolo”, dice riferendosi agli anni ’60. A quel tempo, infatti, Rapu recupera con pazienza gli usi e i costumi locali, come i balli e i canti, riunendo persone di tutte le età, per diversi mesi. A differenza del nostro De Martino, il suo obiettivo non è antropologico bensì politico. Perciò non trascrive nulla di quel lavoro. Vuole fare della tradizione qualcosa di vivo e ridare dignità e forza ai Rapa Nui. Ha un genuino impegno sociale e politico che lo porta a spedire una lettera al Presidente della Repubblica del tempo, Frei, per denunciare la condizione di umiliazione e controllo che i militari, che controllano l’isola in quel momento, impongono da anni. Ma, per questo, lo tacciano di essere un “comunista e sovversivo” e la marina lo cerca per incarcerarlo e, in un secondo momento, per farlo sparire. Alfonso scappa per settimane, rifugiandosi nelle molte caverne pasquensi, ma poi decide di costituirsi: “Non potevo più continuare a nascondermi. Quando mi presero volevano gettarmi in mare, facendo passare l’idea che mi ero suicidato. Ma, prima di arrivare sulla nave, le donne dell’isola mi salvarono, altrimenti sarei morto”, mi spiega tradendo un’emozione che non si è spenta dopo tanti anni. La sua riconoscenza verso quelle donne è totale. Prima di essere imprigionato, infatti, quasi tutte le donne isolane si organizzano e decidono di interporsi ai militari, impedendo letteralmente di farli rientrare sulla nave. Così Alfonso viene liberato. La lettera di denuncia, poi, finalmente arriva a Frei, che decide di avviare un processo di sviluppo economico e di autonomia politica che prosegue costante nei decenni successivi, e che passa di governo in governo, come fosse una staffetta. Grazie alla sua popolarità, Rapu diviene il primo sindaco dell’isola dopo la scomparsa del Re, qualche decennio prima.

“Proprio non capisco chi ancora si rifà al patto del 1888 tra la corona pasquense e lo Stato Cileno”, mi dice riferendosi a chi rivendica l’autonomia dell’isola. Girando Hanga Roa, in effetti, si possono vedere qua e là alcuni cartelli di protesta dove si accusa il Cile di occupazione coloniale. Con il patto del 1888 lo Stato garantisce ai Rapa nui protezione da qualsiasi forza straniera, perché l’isola aveva vissuto per decenni il saccheggio dei peruviani, che avevano ridotto in schiavitù gran parte degli uomini, distruggendo di fatto la tradizione pasquense. Inoltre, il Cile riconosce ai pasquensi l’autonomia politica e quella educativa. “Tutto ciò, oggi, viene garantito. La marina ci difende, eleggiamo i nostri rappresentanti, quasi tutti di origine rapa nui, e abbiamo le nostre scuole”, afferma Rapu malcelando un certo orgoglio. Poi aggiunge che, se esiste un problema vero, è che “oggi è molto poco ciò che resta della nostra tradizione. Sono preoccupato perché stiamo addirittura perdendo la nostra lingua”.

Ad Hanga Roa, però, la lingua sembra ancora molto parlata. È comune sentir parlare rapa nui ovunque: per strada e nelle piazzette del paese, così come nei locali pubblici, come le poste o il municipio, o nei locali privati, come i molti negozietti che vendono souvenir di quella che tutti chiamano “la via principale”. È in questa via che si sviluppa, in effetti, gran parte della vita diurna e notturna della “capitale”. Tuttavia, se ci si mette realmente all’ascolto (senza aver la pretesa di capire ovviamente) ci si rende conto che la lingua che parlano è piena di frasi, parole, e modi di dire tipicamente cileni. “Po”, “Uevon”, “Entonces”, etc. Uno strano accostamento, che la rende molto buffa, e che sembra essere il risutlato di una profonda trasformazione. Forse dovuta anche alla massiccia presenza dei “continentali”, ossia dei cileni non rapa nui, aumentata molto negli ultimi decenni.

“Oggi le persone di orgine rapa nui sono quasi il 60%”, mi dice a questo proposito l’avvocato Jacobo Hey, un’altra figura autorevole dell’isola che lavora presso la magistratura del posto, dove lo incontro. Questo omone dal comportamento fiero e virile non è d’accordo con la visione di Rapu: “Bisogna ricordare che è in corso negli ultimi anni un processo di recupero della coscienza delle nostre tradizioni che si è svolto soprattutto attraverso manifestazioni pubbliche e nelle scuole, dove si insegna il pasquense. Oggi più che mai esiste la volontà di rafforzare la nostra politica e la nostra lingua. Ciò che, invece, si è perso da tempo è la nostra religione. L’influenza della chiesa cattolica è molto forte. E poi, da quando nel ’66 si è cominciata a sviluppare una vera presenza amministrativa da parte dello Stato cileno, il popolo si è dovuto adeguare alla visione cilena della vita, che è così penetrata nel costume. Ma ancora esistono istituzioni tradizionali, come il “consejo de los ancianos”, che esercitano un’influenza sulle istituzioni ufficiali”.

Quanto afferma Hey si può vedere chiaramente la domenica, quando una grande quantità di isolani si riversa nella sola chiesetta di Hanga Roa per la messa, o scoprendo le croci piantate su diverse colline isolane, e incontrando i molti luoghi di culto cattolici e le statue della Madonna costruiti vicino ai luoghi archeologici religiosi dove si trovano i Moai. Quasi a voler ribadire che la religiosità di ieri non è quella di oggi. La chiesa di Hanga Roa, però, è un gioiello di sincretismo: all’esterno il basso edificio bianco è adornato da rossi simboli tradizionali Rapa Nui, tipo corpi di animali stilizzati, mentre, all’interno, un cristo di legno dai chiari tratti polinesiani, con tanto di barba e baffi e senza il minimo segno di sofferenza, campeggia sull’altare minuto da cui si celebrano le funzioni. Insomma, sembra proprio che sia il sincretismo a dominare la lingua e la religione del posto.

Chiesa di Hanga Roa
Cratere di conservazione della biodiversità

La difesa del microcosmo 

L’isola è un microcosmo ecologico, sociale e politico. Se la quasi totalità della popolazione vive ad Hanga Roa, ed è divisa tra chi vuole maggiore autonomia e chi vuole maggiore integrazione con il Cile, la sorpresa che si ha nel visitarla per la prima volta non è solo dovuta ai Moai, ma anche agli straordinari luoghi naturali che si scoprono oltre la distesa di terra e rocce vulcaniche che la ricopre in modo omogeneo. Subito dietro l’aereoporto, per esempio, si può salire su uno dei crateri spenti più impressionanti della terra, il vulcano Rano Kao. Situato vicino a Orongo, antico spazio rituale a ridosso di una grande scogliera da dove si possono ammirare due piccoli isolotti vicini alla costa, e dove si dice prolifichino gli squali, il cratere è pieno d’acqua e ricoperto di vita vegetale acquatica e lungo le sue pareti. Se gli antichi abitanti dediti alla meditazione religiosa si costruirono delle case di terra giusto a ridosso della scogliera, oggi i Rapa Nui fanno del cratere uno spazio per la conservazione della biodiversità locale, dove hanno seminato tutte le piante che si trovano sull’isola. Per rispettare lo stesso principio di conservazione, hanno lasciato mucche, cavalli e polli scorrazzare liberi, senza controllo, per tutta l’isola. Ma è di certo molto buffo incontrare mucche solitarie o gruppi di cavalli sfacciati che occupano le strade e mettono a repentaglio la vita dei turisti quando viaggiano in macchina e affrontano le molte curve del posto. Ma, al di là di tutto, arrivare a ridosso del cratere pieno d’acqua e piante genera quel misto di ammirazione e stupore che sorge solo quando si contempla la bellezza naturale del nostro pianeta. E vale tutti i rischi possibili di incidenti con cavalli e mucche allo stato brado.

Un’altra sensazione forte si ha anche di fronte ai Moai, posizionati sempre in posti molto suggestivi della costa e dell’entroterra. In questo caso, tuttavia, tale sensazione deriva dal senso della storia passata e, contemporaneamente, dallo scoprire ogni volta che, come esseri umani, siamo capaci di creazioni straordinarie e di imprese completamente folli (come le antiche guerre tra i diversi gruppi Rapa Nui che li portarono quasi all’estinzione). Il Moai, in fondo, è la sintesi perfetta di questa doppia tensione umana. La costruzione eccessiva dei Moai da parte degli antepassati, non a caso, portó alla quasi completa deforestazione dell’isola. Oggi, soprattutto nella sua parte centrale, dove si estende un bosco di eucalipti e pini davvero importante, il territorio è stato in parte riforestato. Certo, questi alberi non sono autoctoni, ma rappresentano il simbolo di una verace volontà di conservazione e cura da parte degli attuali Rapa Nui.

Anche per questo i primi di Settembre di quest’anno, dopo una consultazione popolare, è stata istituita attorno all’isola di Pasqua la più grande riserva marina dell’America Latina. Il 64% dei 642 indigeni che hanno partecipato al voto ha approvato la riserva con la clausola che si potrà continuare ad esercitare la pesca da parte dei Rapa Nui sull’intera area marina, ma solo con tecniche e strumenti artigianali. Si tratta di 720 mila km (due volte la Germania) che saranno tutelati dalla pirateria delle barche che praticano la pesca a strascico, soprattutto quelle legate alle 4 o 5 compagnie che gestiscono la pesca in Cile. “Si tratta di una co-amministrazione tra Stato cileno e popolo Rapa Nui”, mi dice Zoilo Hucke, rappresentante del Codeipa, importante organismo per lo sviluppo dell’Isola di Pasqua gestito autonomamente dagli indigeni. Il Codeipa è l’ente consultivo che tutte le istituzioni pubbliche, cilene e dell’isola, interpellano per risolvere le questioni economiche più delicate. “Non possiamo fare tutto da soli. Per esempio, a livello del controllo delle acque, abbiamo bisogno di satelliti, aerei e navi. Non ne abbiamo la capacità, da soli.”, continua Hucke quando lo incontro nella sede della Governatrice per farle un’intervista generale.

Quando la incontro nel suo grande ufficio, mi accoglie in piedi davanti alla sua scrivania e alla foto della “Presidenta” Bachelet, in un elegante vestito rosso e giallo, e con un fiore tra i capelli. In perfetto stile polinesiano, insomma. Carolina Hotu è una donna di mezza età dai tipici tratti indigeni (pelle oliva, naso tondo, occhi piccoli, guance paffute, bocca carnosa, etc). E’ molto affabile e gentile, e mi dipinge un quadro completo dell’impegno collettivo verso la cura dell’isola, sottolineando aspetti problematici e rilevanti dell’attuale situazione sociale. Le chiedo se la convivenza con lo Stato cileno non sia in realtà un “patto di convenienza”, dato che l’isola ha uno statuto speciale che evita ai suoi abitanti di pagare le tasse allo Stato. Carolina non ha dubbi: “No. Negli ultimi 20 anni tutti i governi cileni ci hanno permesso uno sviluppo impressionante, questo è certo. Viviamo oggi tutti molto bene, è vero, ma la stragrande maggioranza dei Rapa nui è sposata con un continentale. Ciò significa che le nostre famiglie sono legate affettivamente al Cile. Ormai siamo un mix, non è una questione di convenienza se conserviamo un legame con lo Stato cileno”, dice, aggiungendo subito che i veri problemi dell’isola vengono dai suoi abitanti. “Anche se qui non abbiamo ancora dei milionari, già è possibile percepire forme importanti di diseguaglianza. Molte persone guadagnano molto. Stiamo pensando di far pagare delle tasse speciali a questo tipo di persone. Perché c’è il rischio che un domani pochi possano divenire i padroni dell’isola. Eppoi, oggi, il problema è che molti si stanno approfittando delle terre che lo Stato ci ha restituito o promesso di restituirci”, afferma. In effetti, ormai da anni, il Cile ha cominciato a redistribuire la terra isolana alle famiglie rapa nui. Il problema è che ha nelle sue mani ancora gran parte degli ettari e ha imposto dei criteri specifici agli isolani per riaverli indietro: si deve presentare una domanda con un progetto dove si chiarisce l’uso che se ne vuole fare e gli strumenti da usare. “Non si può criticare lo Stato, che pensa al bene comune, ma chi si rivende la terra acquisita o chi la occupa indebitamente. Siamo noi che dobbiamo prenderci cura del nostro territorio”, conclude la Hotu.

Carolina Hotu
Visione del mare da una grotta dell’Isola

Un’autonomia sui generis

Di tutt’altro avviso è l’altra autorità politica rapa nui, il sindaco di Hanga Roa, Pedro Pablo Edmunds Paoa, che si considera discendente diretto dell’Ariki, l’antico Re, forse anche perché sono 20 anni che governa “la capitale”.

“Lo Stato cileno dovrebbe rispettare l’accordo del 1888, così saremmo tutti felici e finirebbero i nostri constrati”, dice Edmunds riferendosi al malcontento di alcuni abitanti verso il Cile. “L’isola Cook dovrebbe essere il nostro esempio, perché ha firmato un accordo di amicizia tra il popolo maori (polinesiani come noi) e la Nuova Zelanda, sulla base di una costituzione autonoma e di una collaborazione reciproca. Esattamente ciò che il nostro Re ha firmato 130 anni fa con il Cile e che non è mai stato riconosciuto”, afferma con forza. Poi rincara la dose: “Sono 15 anni che subiamo un processo di “cilenizzazione” che sta mettendo in pericolo la nostra identità. Le banche, l’aereo, il commercio… se tu cammini per la strada principale, i veri padroni sono i continentali!”.

Ma, più che i cileni, quello che salta agli occhi ad Hanga Roa è la massiccia presenza dei turisti che vengono da ogni parte del pianeta, che ogni giorno popolano tutta l’isola da nord a sud, e che si riversano durante il giorno in tutti i luoghi cerimoniali per contemplare, o semplicemente fotografare, le famose statue. Alla perfiferia della cittadina, per esempio, turisti dei più diversi paesi del mondo aspettano per ore sdraiati sull’erba e di fronte al mare, per vedere i colori sgargianti del rosso e dell’arancione disegnare i contorni di imponenti Moai messi in fila. La stessa scena si ripete, all’alba, in un altro posto cerimoniale dove i Moai sono numerosi e ben conservati. In effetti la visione dell’alba o del tramonto che nasce dietro le statue e l’oceano può togliere il fiato anche al turista più cinico e distratto.

Il turismo, si sa, aumenta anche la quantità di immondizia e ha un impatto sul consumo delle risorse idriche ed elettriche isolane. Perciò, sempre i primi di Settembre di quest’anno, è stata approvata dal parlamento cileno una “legge di residenza” che limita l’ingresso ai non Rapa Nui, stranieri e cileni del continente, a 30 giorni di permanenza. Dopo un lungo iter di discussione tra parlamentari cileni e rappresentanti rapa nui (sindaco, governatrice, membri del codeipa, consiglio degli anziani), è stato sancito che ormai l’accesso all’isola non è più libero. A questo proposito Edmuns afferma: “Non sappiamo quanto possa durare l’acqua che c’è, per esempio. Perché fare entrare più abitanti del necessario, se non ne abbiamo idea? Per costruire le nostre case, poi, abbiamo a disposizione solo 3 mila ettari. Che facciamo allora? Restringiamo la popolazione nativa o chiudiamo le porte a chi vuole venire a risiedere dall’estero? Che gli dici a tua moglie? Che non può più avere bambini, perché siamo saturi, oppure dici a chi vuole venire qui che lo può fare solo per turismo?”. Ma cosa succede se un isolano dovesse innamorarsi e poi sposarsi con qualcuno che viene da fuori? Il sindaco risponde a questa domanda con un’altra domanda: “Qui siamo una zattera, che può portare solo 30 persone, ma sono 3 mila quelle che ne hanno bisogno. Qual è il criterio che utilizzeresti per decidere chi sale e chi non sale? Se ci soffermiamo solo sul criterio, finiremo per affondare!”, conclude ricordandomi che la legge non è stata approvata solo per questioni di carattere ecologico, bensì anche per tutelare il vasto patrimonio archelogico dei Moai, che va ben oltre i siti ufficiali e turistici di oggi.

In realtà, oltre la difesa del patrimonio culturale ed ecologico, la legge sulla residenza è un modo blando per riaffermare l’autonomia del popolo rapa nui, come sa perfettamente anche il sindaco.

Una nuova costituzione per i popoli originari

Al di là della legge sulla residenza, i Rapa Nui, come gli altri popoli originari cileni, stanno partecipando ad un processo costituente istituzionale messo in piedi dal governo della socialista Bachelet per rispondere al vasto movimento popolare che chiede, dal 2011, di abolire l’attuale costituzione pinochetista del 1980. Anche le popolazioni dei popoli originari cileni hanno partecipato a questo percorso: 16 mila persone si sono incontrate in assemblee territoriali per diversi mesi, con il compito di discutere le linee generali del nuovo testo costituzionale.

Ad Agosto di quest’anno è stato organizzato un incontro consultivo ad Hanga Roa, per capire quali siano le richieste dell’isola rispetto alle priorità chiarite dalle assemblee e dagli incontri precedenti. In quell’occasione partecipa anche il sottosegretario ai servizi sociali Juan Eduardo Faundez Molina, che sta seguendo il vasto percorso consultativo per il governo e che ha difeso la sua posizione davanti alle molte critiche ricevute dai rapa nui che rivendicano l’indipendenza. L’attuale processo costituente istituzionale, infatti, depotenzia la posizione di chi vuole rompere con lo Stato cileno, soprattutto perché include le rivendicazioni politiche e giuridiche di tutti i popoli orginari cileni nella prospettiva di un nuovo Stato plurinazionale, simile ad alcuni “cugini sudamericani” (Ecuador, Bolivia, Colombia). Il governo cileno ha voluto chiedere ai Rapa Nui quali siano i punti che vogliono inserire nella nuova Carta Magna. “L’attuale costituzione, come tutte quelle che sono esistite fino ad oggi, non ha incluso neanche una parola sulla tematica indigena, la cui popolazione oltrepassa il 9% del totale”, mi dice il sottosegretario al margine dell’incontro. “Il nostro governo ha proposto, per la prima volta nella storia, il “Ministero dei popoli indigeni”, il “Consejo nacional de pueblos” e il “Consejo de pueblos”. Ciò lo ha fatto per rappresentare la voce e gli interessi delle popolazioni indigene nello Stato. Senza subordinare i loro diritti al governo di turno. Alla fine dell’anno queste istituzioni saranno pienamente operative”, mi spiega.

I punti che riguardano il popolo Rapa Nui, e che dovrebbero entrare nella nuova costituzione sono: riconoscimento costituzionale, diritti linguistici e culturali, restituzione territoriale e rappresentanza politica (assicurare alcuni scranni parlamentari agli isolani). Nel caso dovesse giungere a termine il processo istituzionale, davanti a questa nuova prospettiva di riconosscimento politico e giuridico, sembra assai difficile che si potrà ancora giustificare una posizione anti-cilena in futuro. La governatrice, anche lei presente all’incontro, considera che questo percorso sta facendo la storia dell’isola di Pasqua. “Difenderò il processo di cambio costituzionale anche se, da Novembre, ci dovesse essere un alto governo”, afferma la Hotu riferendosi alla possibile vittoria della destra cilena alle elezioni presidenziali di fine anno. “Adesso è importante che la nostra gente partecipi, perchë siamo di fronte ad un’opportunità unica. La nuova costituzione potrebbe ridimensionare anche chi ha sempre contestato lo Stato, dicendo che prende delle decisioni da solo”, conclude la governatrice facendo riferimento alla frammentazione politica tra i Rapa Nui.

Tuttavia, l’attuale governo non può cambiare la Costituzione del 1980 per complesse ragioni politiche e giuridiche (principalmente il fatto che la Bachelet non ha i numeri in parlamento per farla approvare). Perciò “la Presidenta” ha imposto al prossimo governo una discussione sul merito del processo, che potrebbe essere guidato, però, da chi non vuole realmente portarlo a termine. Per questa ragione le aspirazioni allo Stato plurinazionale dei popoli originari, come i Rapa Nui, o dei progressisti del Paese, come i socialisti, sembrano cozzare contro l’evidente difficoltà politica prossima ventura. Comunque andrà a finire, e al di lá delle divisioni interne, c’è da scommettere sulla solida prospettiva politica dell’Isola di Pasqua. Una barca di pietra che resiste da secoli alle intemperie politiche, e che saprà di certo ritrovare la rotta dell’autonomia di fronte al possibile naufragio costituzionale.

 
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