La libertà è oltre il muro, di Matteo Scarabelli In Bicicletta oltre il Muro c'è la Libertà. Stampa
Scritto da Santoni Maurizio   
Giovedì 29 Settembre 2011 10:08

Il nostro autore Matteo Scarabelli, che con noi ha scritto “Europa Europa!” e “C’è di mezzo il mare“, ha parlato del suo ultimo libro nell’ambito del progetto Prometeo nel carcere Le Vallette di Torino. Ci racconta com’è stata quest’esperienza.

Pensavo di essere andato in luoghi lontani con la bicicletta, pedalando migliaia di chilometri, attraverso decine di frontiere in diversi continenti. Eppure, ieri, sono stato in un altrove che mi ha fatto sembrare Bengasi, Gerusalemme, Helsinki o San Pietroburgo, dei luoghi quasi familiari. Si trova poco lontano dal centro di Torino. Non puoi entrarci liberamente. Ti ci devono invitare e servono pure un sacco di scartoffie, fax, fotocopie di documenti, carta d’identità. Io sono stato invitato grazie alla bicicletta e a tutta la strada che ho percorso pedalando. Qualcuno ha pensato che le cose che ho visto e le persone che ho incontrato potessero interessare anche agli abitanti di questo altrove che si trova oltre un muro che è più alto e più spettrale (ma è una dura lotta!) di quello che c’è vicino a Betlemme, tra Israele e Palestina.

Non dimenticherò mai il giorno che ho messo piede nel carcere di San Vittore, a Milano. L’impressione e l’oppressione fu tremenda. Quando varco il cancello del carcere di Torino Le Vallette l’impatto è molto più soft. Al posto delle mura ottocentesche ci sono ringhiere bianche immensamente meno angoscianti. E le palazzine che si vedono dall’esterno sembrano quasi dei condominii, in realtà sono gli uffici e gli alloggi della polizia penitenziaria. Ormai mancano pochi minuti al mio incontro con i detenuti che partecipano al progetto Prometeo (per saperne di più: http://www.prometeo-onlus.org) e mi rendo conto di non avere la più pallida idea di che cosa raccontare. Mi domando se sia il caso di parlare della libertà che un viaggio di un anno in bicicletta può darti. Mi chiedo se abbia senso, qui, parlare di scelte di vita. Ma anche se non ho idea di quali siano gli argomenti giusti, non riesco a pensarci mentre aspetto che il portone di ferro automatizzato mi lasci entrare nel padiglione A.

Dopo diversi cancelli, eccomi a parlare con Gigi e Giovanni. E Mohammed e Piero (i nomi sono di fantasia). Capisco immediatamente che il problema degli argomenti non esiste. Molti di loro hanno già letto il mio libro, anzi l’hanno proprio consumato in attesa di incontrarmi. Sono loro a chiedermi quello che gli interessa. E non c’è dubbio che siano le storie. Mi domandano se quella donna di cui parlo, alla fine, l’ho sposata veramente. Se ho avuto dei figli. Come vanno gli affari del marocchino Omar Tonil che ha aperto la pizzeria a Nador. Se i bolognesi che fanno olii essenziali in Albania se la cavano bene. Se il mio amico Anwar, di Bengasi, è ancora in Libia oppure è scappato. Se Djamila e Zaza, in Algeria, sono riuscite a trovare un altro uomo. Mi fanno queste domande con un pudore struggente, una delicatezza che non pensavo potesse sopravvivere dietro tutte queste porte di ferro.

Giovanni è stato condannato una settimana fa per rapina a mano armata. Gli hanno dato cinque anni. Ha delle occhiaie nere e profonde che ricordano quei segni dei soldati in missione notturna. Mi racconta che dopo l’arrestato l’hanno massacrato di botte e da quel momento le occhiaie non gli sono più andate via. Si ritaglia un po’ di spazio tutto per sé, oltre a fare domande è disponibile a dare anche risposte. E anch’io sono assetato di storie. Quella di Giovanni è fatta di droga, spaccio, diversi arresti e una condanna scontata in un carcere della Toscana. Poi «quaranta giorni da pazzo… mi hanno beccato per ’sta rapina, ma poteva andarmi peggio, sono andato fuori di testa… Cazzo, adesso mi sembra impossibile aver fatto quelle cose, ma ero disperato, tradito da persone di cui mi fidavo, senza soldi… In fondo però mi dispiace solo per Elena, che è riuscita ad amarmi nonostante tutti i miei casini… Dopo il processo le ho scritto che non volevo più vederla, non so dove l’ho trovata la forze per rinunciare a lei ma come si fa a mettere la vita di una persona in stand-by per cinque anni?». La storia di Giovanni è complicata, dolorosa. Ma non c’è tempo, e forse neanche la voglia, per i dettagli. Insiste per mostrarmi la sua cella.

Come tutti i partecipanti al progetto Prometeo, Giovanni ha una cella tutta per sé. Farà tre metri di lunghezza per due di larghezza. Di fianco c’è il bagnetto. La prima cosa che noto, in alto, di fronte all’ingresso, è la foto del Che con il sigaro in sigaro in bocca, che gli è costata una segnalazione ufficiale alla direzione del carcere. Oltre al letto c’è posto solo per una piccola scrivania, su cui vedo una fila di libri. C’è anche il mio e Giovanni mi chiede una dedica «ma di una riga soltanto». Gli scrivo: MAI DAUR. È un motto di tenacia degli alpini, significa “mai indietro”.

Il tempo è scaduto, le due ore sono volate. È difficile immaginare un luogo tanto duro e angosciante. Fuori mi aspetta la mia vita che come mi ha detto Mohammed «assomiglia a un romanzo a lieto fine». Marina, i bambini, la bicicletta. Eppure non ho voglia di andare via. Vorrei restare ancora un po’ con queste persone. Conoscere e capire le loro storie. E magari anche il perché, nonostante tutto, non riescano proprio a farmi paura. Me ne vado con la promessa di spedirgli altri libri di viaggio. E soprattutto di tornare a trovarli. Di solito mantengo le promesse. Questa volta sono sicuro che lo farò.